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Legge 40: resta il divieto per l'eterologa |
PMA - Articoli |
Scritto da Angela Messina Mercoledì 23 Maggio 2012 15:15 |
In Italia la procreazione medica assistita, PMA, è consentita secondo i parametri della legge 40, che ne consente il ricorso solo qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità, vietando la clonazione umana, e soprattutto la fecondazione eterologa, ossia la fecondazione con un donatore esterno alla coppia.
Proprio su questo diversi tribunali hanno avanzato questioni di legittimità a seguito dei ricorsi delle coppie, questioni respinte al mittente oggi dalla Consulta alla luce della sentenza della Corte europea di Strasburgo del novembre 2011 che giudicava legittimo il divieto alla eterologa. Vietata inoltre qualsiasi sperimentazione sull'embrione, nonchè qualsiasi forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti. Non è la prima volta che la suprema Corte è chiamata a pronunciarsi sulla legge 40. Già nel 2006 con un’Ordinanza veniva dichiarata manifestatamene inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge 40 (Sperimentazione sugli embrioni umani), mentre successivamente nel 2009, con la sentenza n. 151 la Consulta dichiarava l’incostituzionalità dell’articolo 14, comma 2, nel punto in cui prevede che ci sia un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre di embrioni. Questa volta invece la Corte costituzionale è stata chiamata pronunciarsi sul divieto di applicazione di tecniche eterologhe previsto dalla legge numero 40 del 2004. La norma infatti, prevede che possano accedere alle tecniche in questione le coppie infertili e sterili, ma vieta alle coppie sterili che non hanno gameti idonei per una gravidanza, l’accesso alla donazione di gameti. Tutto comincia in Austria, dove la fecondazione eterologa è parzialmente vietata: due coppie fanno ricorso alla Corte europea dei diritti dell’Uomo per poter accedere alla tecnica anche nel loro paese e nell’aprile 2010 la Corte si pronuncia in prima battuta a loro favore, dichiarando la violazione degli articoli 8 e 14 della Convenzione dei diritti dell’Uomo, sul diritto al rispetto della vita privata e familiare e sul divieto di discriminazione. La sentenza suscita comprensibili entusiasmi anche in Italia, tra gli oppositori della legge 40. Nel giro di sei mesi a cavallo tra 2010 e 2011 tre coppie sterili, per le quali la fecondazione eterologa è l’unica tecnica possibile di pma, ricorrono ai tribunali di Firenze, Catania e Milano con la stessa richiesta delle coppie austriache. Tutti e tre i tribunali rimandano la questione alla Corte costituzionale, sollevando dubbi di illegittimità, irragionevolezza e discriminazione per l’articolo 4, comma 3 della legge 40, quello che vieta il ricorso all’eterologa, e sottolineando il precedente della sentenza europea. Intanto, però, in Europa cambiano le carte in tavola. L’Austria, fiancheggiata da Italia e Germania, si appella alla Corte di Strasburgo, che il 3 novembre 2011 emette una sentenza contraria a quella di primo grado: secondo la nuova sentenza, il divieto alla fecondazione eterologa non viola i diritti umani fondamentali ed è dunque un divieto che i singoli stati possono legittimamente porre. Di fronte a questo quadro, la Corte italiana poteva percorrere diverse strade, come per esempio concentrarsi sul dubbio di costituzionalità della legge rispetto all’articolo 3 della Costituzione, quello che pone l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, come afferma Ileana Alesso, avvocato del foro di Milano, impegnata in vari processi sull’incostituzionalità della legge 40, poichè il dubbio di discriminazione c’è, perché a certe coppie non viene concesso il ricorso all’unica tecnica possibile di pma che potrebbe risolvere la condizione di sterilità. Una situazione quasi assurda, perché è proprio la legge 40 a stabilire che è consentito il ricorso alla pma al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi. E invece, la Consulta ha scelto di rifarsi alla sentenza europea, chiedendo in pratica ai tribunali coinvolti di riformulare i termini del ricorso. Una procedura tecnica sicuramente corretta dal punto di vista giuridico, anche se l’impressione è che in qualche modo ci si sia voluti lavare le mani della faccenda. |
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