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Nuove tecniche di test prenatale per scoprire la Sindrome di Down |
Gravidanza - Articoli |
Scritto da Letizia Perugia Lunedì 23 Marzo 2015 14:50 |
La Sindrome di Down è stata descritta per la prima volta nel 1866 da John Langdon Down, lo scorso 21 marzo è stata la giornata mondiale dedicata alle persone che ne soffrono.
A causare la Sindrome di Down è la presenza di un cromosoma in più, il cromosoma numero 21, presente in tre copie anziché due, una caratteristica identificata nel 1959 dal medico francese Jérôme Lejeune.
Una scoperta dalla portata storica, per la prima volta al mondo fu stabilito un legame tra ritardo mentale e un'anomalia cromosomica, una sindrome il cui impatto, grazie alle tecniche di diagnosi prenatale, potrà forse un giorno essere ridotto al minimo. Lo scienziato francese dedicò tutta la vita in difesa dei piccoli affetti dalla sindrome e per questo venne isolato da una parte della comunità scientifica, secondo Lejeune, le manifestazioni fisiche della malattia, soprattutto a livello neurologico, non sono altro che un eccesso di musicisti che suonano la stessa musica a ritmi differenti.
Oggi, grazie alla tecnologia, si è potuto constatare che lo scienziato aveva ragione: nei feti con la sindrome di Down esiste un’alterata espressione di geni rispetto ai bimbi con il numero corretto di cromosomi.
Attualmente la diagnosi delle principali anomalie genetiche può essere fatta mediante diverse tecniche: la più invasiva e per questo a rischio aborto è l’amniocentesi.
Negli anni si sono sviluppate delle tecniche alternative che nel giro di qualche anno potrebbero forse sostituirla: alcune prevedono il dosaggio di particolari marker che sono la misura indiretta della presenza di malattia.
Queste però presentano un tasso di falsi positivi non trascurabile pari a quasi il 4%, un problema che potrà essere sorpassato grazie alla ricerca del Dna fetale libero circolante nel sangue della madre.
Un anno fa sulle pagine del "New England Journal of Medicine" è comparso uno studio che ha comparato le due indagini diagnostiche e stando ai risultati quest’ultima ha presentato un tasso di falsi positivi dello 0,3%, ovvero oltre 10 volte inferiore rispetto al dosaggio dei biomarcatori.
Le statistiche ufficiali non ci sono, ma secondo alcune stime indirette si pensa che, sul totale delle diagnosi di sindrome di Down effettuate con le tecniche di diagnosi prenatale, nel nostro Paese più della metà porti alla decisione di abortire.
Negli Stati Uniti c’è però una scienziata di origine italiana, la professoressa Diana Bianchi della Tufts University School of Medicine, che ha intravisto nella possibilità delle tecniche diagnostiche non invasive la possibilità di contrastare gli effetti della trisomia 21.
Diana Bianchi spiega, in un articolo pubblicato nel 2013 dal titolo “Noninvasive prenatal testing creates an opportunity for antenatal treatment of Down syndrome”, che i test prenatali non invasivi creano un’opportunità per il trattamento prenatale della sindrome di Down.
Il motivo di questa affermazione è da ricercarsi negli studi che la professoressa Bianchi e il suo laboratorio portano avanti da anni: grazie all’analisi delle proteine espresse nelle cellule del liquido amniotico la scienziata ha individuato che nei feti affetti da trisomia 21 c’è un eccessivo stress ossidativo, una produzione incontrollata di molecole tossiche che danneggiano le cellule, già a partire dal secondo trimestre di gravidanza.
Questa caratteristica potrebbe essere sfruttata per ridurre al minimo gli effetti del cromosoma 21 in eccesso.
Ad oggi diversi gruppi di ricerca, tra cui quello della professoressa Renata Bartesaghi dell’Università di Bologna, hanno effettuato con successo dei test sui topi che mimano la sindrome.
Tra le varie molecole testate direttamente sulle madri che portano in grembo topi con la trisomia, otto hanno mostrato risultati promettenti.
L’utilizzo di antiossidanti da parte della professoressa Bianchi, ha permesso di ottenere nei figli dei miglioramenti a livello cognitivo-comportamentale.
Sono risultati promettenti che in futuro potranno aprire la strada ad una sperimentazione per curare a livello prenatale i bambini affetti da sindrome di Down.
Studi epidemiologici confermano inequivocabilmente che l'incidenza della sindrome è strettamente legata e dipendente dalla età materna (>35 anni).
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